Te la racconto a modo mio questa società, attraverso i miei occhi e i miei colori. Le opere di Elisa Bonotti

Te la racconto a modo mio questa società, attraverso i miei occhi e i miei colori. Le opere di Elisa Bonotti

Tre colori. Tre colori sono sufficienti per rappresentare e diffondere, forte e chiaro, un messaggio.
Un messaggio sociale che vuole essere una vera e propria campagna di sensibilizzazione dove l’arte è l’unico tramite.

Così, l’arte di Elisa ammalia e trascina in quegli immaginari tragici come lo sfruttamento minorile, l’infanzia rubata, la discriminazione, la guerra e tutto ciò che ne derivano, tutti i sentimenti annessi che si generano. E se da una parte Elisa si è servita di soggetti a noi conosciuti, come le fotografie di McCurry, dall’altra- pare che abbia sentito il bisogno di plasmare figure proprie, distaccandosi da riferimenti a noi conosciuti e rielaborando immagini e fotografie che ritraggono paesi e culture di cui spesso ci dimentichiamo, perchè siamo troppo impegnati a guardare noi stessi, perchè siamo impegnati a piangersi addosso senza renderci conto che invece siamo eletti, siamo fortunati.

Nel passaggio dalla rappresentazione delle Bambine Afghane a The girl in Blue e The golden Boy, si evince maturità e autonomia artistica, come se Elisa si convincesse – in maniera del tutto corretta – che può raccontare della sofferenza sociale attraverso la propria immaginazione, in modo più autonomo, senza cercare alcun appiglio nei grandi maestri della fotografia. Elisa trasporta la Street art sulla sua tela, la rende frui- bile a tutti, la trasforma a suo modo creando uno stile unico, adattabile, giovanile ma studiato e dal quale emerge una ricerca formale.

Attraverso l’uso analitico del colore, Elisa non solo crea le sue forme, ma instilla nel colore stesso un significato, facendolo emergere in maniera diretta e schietta.

Prendendo in analisi in particolare due opere: The girl in Blue e The golden Boy, ciò che risalta nell’immediatezza è la predominanza di un solo colore brillante rispetto agli altri due colori neutri, ovvero il bianco e il nero. Lo asserisce lei stessa nello spiegare il suo modo di raccontarci: il colore tema porta in sè quanto vuole comunicare.

Il Blu di The girl in Blue ha il principale scopo di abbattere le barriere imposte dal colore della pelle: vuole gridare a gran voce che siamo tutti uguali, che non c’è bianco o nero che possa di- stinguerci, renderci diversi, superiori o inferiori.
Martin Luther King sarebbe orgoglioso di questo, le sue parole evidentemente non sono state vane, come non lo è stato il sangue che ha dovuto riversare per far sì che arrivasse quel giorno, quel giorno « in cui tutti i figli di Dio, uomini neri e uomini bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno darsi la mano e cantare le parole di quel vecchio spiritual Negro, “Liberi, infine! Grazie Dio onnipotente, siamo infine liberi!”» (cit. I have a dream)

D’altro canto il blu sta a simboleggiare un sentimento di tristezza che l’emarginazione e la discriminazione procurano nell’individuo, ma io dico che se dovessimo far riferimento alla simbologia dei colori, allora dovremmo tener conto anche del fatto che il Blu contiene al suo interno un importante significato: quello della pace. Allora è così che si dovrebbe inquadrare The girl in Blue, un’opera che dal dolore, dalla tristezza, dalla discriminazione di genere può far aprire gli occhi, può far maturare l’idea di realtà, uguaglianza, fratellanza, capace di trascinare l’umanità alla comprensione che al mondo deve solo regnare la pace. In The golden Boy, in tutta sincerità, ciò che mi ha colpita maggiormente è lo sguardo del ragazzo. Lo sfruttamento minorile è una piaga che ancora affligge l’umanità tutta. Il mondo è stracolmo di bambini man- dati al macello, costretti a vivere un’infanzia che tale non è. The golden Boy sembra avere lo sguardo volto verso quell’universo dal quale è stato strappato, verso quell’infanzia d’oro che avrebbe il diritto di vivere. Il ragazzo dal volto colore oro probabilmente osserva quell’orizzonte di speranza che l’innocenza non fa mai decadere, perché i bambini sono così: hanno quel dolce coraggio che non li fa smettere mai di sperare, di immaginare, di sognare una vita immersa nella felicità. In un contesto dove il nero dello sfruttamento dilaga, dove divora la figura del ragazzo come risucchiandolo nell’oscurità della gioia rubata, l’oro della sua pelle emerge e brilla dirompente. Si può essere sovrastati dalla sfortuna di essere nati sotto la stella sbagliata, ma la propria luce abbagliante non la potrà spegnere mai nessuno. Se si è al mondo inevitabilmente si è speciali, si è pieni di una ricchezza così grande che nulla può sminuire.

E se mettessimo le due opere insieme, con i rispettivi sguardi rivolti l’una verso l’altra?

Ci renderemmo conto dell’emergere di una serie di elementi: condivisione, solidarietà, supporto. Non so se sia un caso o se sia intenzionale un collegamento tra le opere da parte di Elisa, ma il mio sguardo critico ha il compito di cogliere oltre. In questo oltre io ci vedo una composizione unitaria dove le due opere sembrano compensarsi, essere un unicuum. Se The girl in Blue da un lato volge in suo sguardo verso il basso nascondendo i suoi

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occhi da chi la osserva, e mostrando l’atteggiamento di chi prova disagio, dall’altro lato – se posta in relazione a The golden Boy, sembra quasi osservare il ragazzo dall’alto e viceversa. La ragazza Blu, con i suoi occhi, pare che voglia dire al ragazzo tinto d’oro «non sei solo, non siamo soli, condividiamo la sofferenza che gli altri ci arrecano, il medesimo disagio». Sono fermamente convinta che quando un artista crea delle opere in serie, queste siano inevitabilmente collegate tra loro; e credo che le opere di Elisa ne siano la prova.

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